All’inizio del Cammino delle Dolomiti, entrando nel Santuario dei santi Vittore e Corona, si incontrano due raffigurazioni dell’Ultima Cena, di cui una caratterizzata dalla presenza di ventisette gamberi rossi di fiume.
I gamberi di acqua dolce sono rappresentati frequentemente nelle “Ultime Cene” realizzate tra XIV e XVI secolo in chiese del nord Italia; la più antica è probabilmente quella di San Zeno Maggiore a Verona, datata al primo quarto del Trecento. Questa insolita presenza, inizialmente limitata all’area della “scuola di Verona”, attorno al Lago di Garda, nel Quattrocento e Cinquecento si estese in zone a nord del Po, nelle vallate alpine e subalpine, nella provincia di Belluno e nel resto del Veneto, in Friuli, in Trentino, in Lombardia (Bergamo e Brescia, Val Camonica, Val Brembana), in Piemonte, Liguria, fino al canton Ticino. Questi dipinti richiedevano ampi spazi e, probabilmente per questo motivo, sono spesso collocati sulle pareti settentrionali, prive di finestre.
Per quale motivo questo tipo di raffigurazione è circoscritto nello spazio e nel tempo? Quale è il significato della presenza dei gamberi sulla tavola dell’Ultima Cena? Non esiste una risposta univoca, anche perché nessun pittore ha mai lasciato scritto nulla in proposito, tuttavia, su questo argomento, gli storici dell’arte hanno proposto varie interpretazioni (1, 2).
Una prima spiegazione è che i gamberi siano comparsi sulla mensa…per errore. Nelle scene di banchetti di influenza bizantina, come l’Ultima Cena a mosaico della basilica di San Marco a Venezia, in cui Gesù è seduto a capo tavola, erano talora presenti le forchette a due rebbi, che sarebbero state male interpretate, perché si trattava di oggetti non comunemente usati nel Medioevo; queste forchette (presenti nell’Ultima Cena della chiesa di San Vittore di Tonadico, in Primiero, datata al XIII secolo) sarebbero quindi state “convertite” in gambero che, con le sue due chele e il corpo allungato, richiama la forma di questo utensile (3).
La rappresentazione dei gamberi potrebbe poi aver avuto successo, diffondendosi in tutte le zone in cui, nel Medioevo, questi crostacei costituivano un cibo di consumo abituale da parte delle popolazioni rurali, quindi soprattutto nel nord Italia; i gamberi di fiume (Austropotamobius pallipes) fino al XIX secolo erano presenti in buona quantità nei torrenti e ruscelli che garantivano il loro habitat ideale, con acque pulite e ricche d’ossigeno, ma sono oggi una specie protetta, fortemente minacciata da vari fattori, tuttavia ancora presente nei ruscelletti della provincia di Belluno, “in tutto il settore meridionale di questo territorio (Alpago, Val Belluna, Feltrino), con segnalazioni puntuali anche nel basso Agordino” (4). La loro raffigurazione rappresenterebbe un cibo consumato regolarmente, specie nel periodo quaresimale in cui dalle tavole era bandita la carne; fra Bonvesin de la Riva, vissuto fra il 1240 e il 1313, nel suo De Magnalibus urbis Mediolani (Le meraviglie di Milano), ci informa che nel contado milanese c’erano acque limpidissime e che, dalla Quaresima fino a San Martino (a carnisprivo usque ad Sancti Martini festivitatem) nella sola città di Milano si consumavano quotidianamente più di sette moggia di gamberi (plures septem cancrorum modiis). Dal saggio “Zoologia popolare Veneta”, pubblicato nel 1887, sappiamo che nel Bellunese “la loro caccia, fatta al lume di lanternino, dà sempre motivo di chiasso” e, nella “Fiaba del Gàmbro che diverte assai i fanciulli”, si narra di “un gambro che no l’avea pi acqua in tel rui” e che “camina per andar in zerca de carne da magnar”.
Un aspetto concreto, finora mai considerato, è che in quel periodo il gambero di fiume (gammarus in latino, dal greco kàmmaros, “ricurvo”) veniva usato anche a scopo terapeutico, in particolare contro il morso dei cani rabbiosi, come testimoniano sia un’ode (Ad Franciscum Philomusum) del bellunese Pierio Valeriano (1477-1558) che il Codex Bellunenis, erbario del XV secolo, che ha una pagina dedicata al “ganbaro”, raffigurato in modo molto realistico, a fianco di uno “scorpion”; un uso curativo confermato da vari altri testi di medicina del XVI sec. ispirati al Dioscoride greco, in cui la trattazione del gambero è sempre seguita da quella dello scorpione.
Nel Medioevo era frequente l’uso di allegorie, quindi è possibile che la diffusione della rappresentazione dei gamberi sulla mensa dell’Ultima Cena sia stata legata anche a significati metaforici. Il gambero, durante il periodo della muta, lascia il vecchio carapace per iniziare un nuovo ciclo vitale, richiamando il ricordo della Passione e Resurrezione di Gesù Cristo. Un altro richiamo alla resurrezione di Cristo dopo le sofferenze della passione, presente nella tradizione rurale veneziana, è legato al fatto che il colore grigio del carapace del gambero, diventa di un rosso acceso dopo la cottura; un’interpretazione che si rintraccia già nel XIII secolo nel poema Goldene Schmiede (la Fucina d’Oro) del tedesco Konrad von Würzburg (1230-1287), dedicato alla Vergine Maria.
Secondo altre interpretazioni la presenza dei gamberi potrebbe essere un’allusione simbolica al tradimento di Giuda, annunciato da Gesù nell’Ultima Cena. Il gambero e il granchio (cancer in latino, karkinos in greco), erano divenuti simbolo dell’ipocrisia e della falsità, perché camminano all’indietro; un riferimento all’allontanamento di Giuda da Gesù Cristo; a differenza del granchio, tuttavia, il gambero possiede un’appendice caudale che gli permette di muoversi con rapidità in avanti, di lato e indietro. In qualche Ultima Cena il gambero posto vicino a Giuda assume l’aspetto simile a uno scorpione (es. santo Stefano a Rovato, Brescia), animale che nel Medioevo aveva valenza negativa. In questo filone interpretativo si collocano le ipotesi, criticate da alcuni storici dell’arte (Claut), secondo cui la presenza dei gamberi avrebbe un significato anti-giudaico e collegabile alle eresie sull’Eucarestia (Comel). Il gambero potrebbe infine rimandare al significato cristologico del segno zodiacale del Cancro, che cade con il solstizio d’estate (24 giugno), poiché Gesù Cristo, fin dalle origini fu assimilato al sole, come Signore e ordinatore del tempo; nel Palazzo della Ragione di Padova, in uno dei rarissimi cicli astrologici medievali, si nota la presenza del gambero di fiume raffigurante il segno del cancro, affresco attribuito a Giotto.
Se questi sono i motivi della comparsa e diffusione dei gamberi di fiume nelle Ultime Cene, a cosa si deve la loro quasi definitiva scomparsa, dopo il XVI secolo? Sono infatti rarissime le Ultime Cene con gamberi del XVII secolo, come quella di san Filippo e Giacomo di Cogolo di Peio nel Trentino, datata 1643. Esiste una possibile spiegazione che però non ha ancora trovato conferme. Il Concilio di Trento (1545-1563), in una delle sue ultime sedute, emanò un decreto (De invocatione, veneratione et reliquis sanctorum et sacris imaginibus, del 3 dicembre 1563) che introduceva il controllo delle opere d’arte nelle chiese da parte delle autorità religiose locali, in modo che nella “Bibbia dei poveri” per immagini ci fosse chiarezza, verità e aderenza alle scritture: “non sia esposta nessuna immagine che esprima false dottrine e sia per i semplici occasione di pericolosi errori”. Per rispondere alle critiche luterane, ma anche alle istanze di riforma della Chiesa cattolica che proponevano un ritorno alla semplicità e povertà delle origini, l’Ultima Cena, con l’istituzione dell’Eucarestia, doveva tornare a essere rappresentata come un pasto frugale, in cui sulla mensa dovevano comparire il pane, l’agnello e il vino e poco altro. Si sapeva poi che i gamberi non potevano essere una pietanza realmente consumata dagli apostoli durante l’Ultima Cena, perché come tutti i crostacei, facevano parte dei cibi considerati impuri (kósher) dalle norme culinarie ebraiche (Levitico 11, 9-12, Deuteronomio 14, 9-10); forse anche questo richiamo all’aderenza al vero contribuì alla loro scomparsa.
Lungo il Cammino delle Dolomiti si possono ammirare alcune Ultime Cene con gamberi in queste chiese: Santuario dei santi Vittore e Corona (datata 1390-1410), Santa Maria Assunta di Servo di Sovramonte (vedi foto in evidenza di questo articolo) , San Tiziano di Oregne di Sospirolo (datata 1497, opera di “Iseppo da Cividal”), San Cipriano di Taibon (attribuita a Paris Bordon, datata prima del 1540), San Giovanni Battista di Libano (XVI sec., attribuita a Giovanni da Mel), San Teonisto di Farra di Mel (XVI sec., attribuita a Marco da Mel – 5), San Benedetto di Celarda di Feltre (XV-XVI sec.).
La presenza di gamberi è stata segnalata (6) in raffigurazioni dell’Ultima Cena di queste altre chiese della provincia di Belluno (non sempre però i gamberi sono numerosi e facilmente riconoscibili): San Pietro di Tiago di Mel (XV sec.) San Giacomo di Zottier di Mel (XV sec.), Santi Vito e Modesto di Tallandino di Mel (XV secolo), San Valentino di Corte di Mel (XV-XVI sec.), San Giacomo di Colderù di Lentiai (XV sec.), San Bartolomeo di Villapiana di Lentiai (XIV sec.), San Bartolomeo di Fumach di San Gregorio nelle Alpi (XVI sec.), Santa Maria Nascente di Formegan di Santa Giustina (XV sec.), Santo Stefano di Gron di Sospirolo (XVI sec., affreschi riscoperti nel 2000, restaurati nel 2007- 7), San Matteo di Sala di Belluno (XV sec.), San Martino di Villapaiera di Feltre (XVI sec. attribuita a Marco da Mel – un solo gambero visibile); erano presenti gamberi anche nell’affresco della ex-chiesa di Sant’Andrea di Bardies (XV sec.; ora visibile in canonica a Lentiai). Alcuni di questi affreschi restaurati mostrano le martellature tipiche per un ricoprimento di intonaco a calce, com’era prescritto durante le epidemie di peste; in qualche caso fu il degrado degli affreschi a motivare l’intonacatura (es. Tallandino, 1950).
Il cammino di scoperta sul significato dei gamberi nelle Ultime Cene finisce qui, ma, visto l’argomento, è possibile anche tornare indietro, di nuovo fino al Santuario dei santi Vittore e Corona (F.L.).
FOTO IN EVIDENZA – Chiesa di Santa Maria Assunta di Servo, dettaglio dell’Ultima Cena, datata alla seconda metà del Quattrocento (1447-1460), attribuita a Giovanni di Francia, come quella di San Giorgio di Polo di Piave (TV).
FONTI
- Claudio Comel, Pietà e dissenso religioso nelle Ultime Cene con gamberi tra Piave ed Adige. Sergio Claut, Iconografia eucaristia nell’Alto Veneto, in “I gamberi alla tavola del Signore”, a cura di Luciana Romeri, In: “Civis: studi e testi”, volume 16, supplemento, 2000, pp. 29-44, 63-82.
- Michele Vello, Le ultime cene con gamberi in affreschi tardogotici del Feltrino, del Trevigiano e del Trentino: problemi iconografici, «Atti e memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere e Arti», 1994-1995, 107/3, pp. 149-172.
- Ester Brunet, Alberto Cosner, Angelo Longo, Cose di pane. Catalogo narrato di una mostra. L’Ultima Cena di San Vittore a Tonadico, Primiero – San Martino di Castrozza (TN), 2018, pp. 22-29.
- Michele Cassol, Luigi Caneve, Bruno Boz, Note preliminari sulla distribuzione di Austropotamobius pallipes complex in Provincia di Belluno. Frammenti. Conoscere e tutelare la natura bellunese, 2018, 8, pp. 53-60.
- Roberta Olivier, Maura Villabruna, Gli affreschi delle Ultime Cene con gamberi nelle chiesette del Bellunese. Relazione sullo scoprimento dell’Ultima Cena del XVI secolo nella chiesetta di San Teonisto a Farra di Mel, Accedemia delle Belle Arti di Venezia, Tesi di Diploma in restauro, Anno accademico 1995-1996, Relatore Prof. Gerolamo Botter.
- Roberta Moretto, Giulia Tonon, Il gambero di fiume nell’Ultima Cena “alpina”: iconografia e analisi di conservazione di tre casi di affresco: San Giorgio di San Polo di Piave (TV), SS. Vito e Modesto in Tallandino di Lentiai (BL), San Bartolomeo in Fumac di San Gregorio nelle Alpi (BL), Corso per collaboratore restauratore dei Beni Culturali istituito con D.G.R. n. 4058 del 19/1272006, Progetto 001, Attività Formativa 2006-2007, Istituto Veneto per i Beni Culturali.
- Elvio De Dea, La chiesa di santo Stefano di Gron – storia e arte, Tipografia Piave Editore (BL), 2013, pp.101-103, 112-117.